(Luca 2,13-21 ) Lattanzio - Aceb_PugliaBasilicata

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2006-2024  ANNO XVIII        2 Maggio 2024
"Portate i pesi gli uni degli altri e adempirete così la legge di Cristo" (Galati 6:2)
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SERMONI
 
 

NON È DALL'ABBONDANZA DEI BENI CHE UNO POSSIEDE, CHE EGLI HA LA SUA VITA

"Or uno della folla gli disse: «Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità». Ma Gesù gli rispose: «Uomo, chi mi ha costituito su di voi giudice o spartitore?» Poi disse loro: «State attenti e guardatevi da ogni avarizia; perché non è dall'abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita». E disse loro questa parabola: «La campagna di un uomo ricco fruttò abbondantemente; egli ragionava così, fra sé: "Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti?" E disse: "Questo farò: demolirò i miei granai, ne costruirò altri più grandi, vi raccoglierò tutto il mio grano e i miei beni, e dirò all'anima mia: 'Anima, tu hai molti beni ammassati per molti anni; ripòsati, mangia, bevi, divèrtiti'". Ma Dio gli disse: "Stolto, questa notte stessa l'anima tua ti sarà ridomandata; e quello che hai preparato, di chi sarà?" Così è di chi accumula tesori per sé e non è ricco davanti a Dio»"  (Luca 12,13-21).

Questo racconto ci pone di fronte ad un problema scottante e sempre attuale che è quello della spartizione dell’eredità, un problema che continua a spaccare le famiglie e a dividere i fratelli quando non viene gestito con equità e con giustizia. È questo un problema col quale tutti si ritrovano a fare i conti: sia ricchi sia poveri, sia credenti sia non-credenti. La spartizione dell’eredità genera contese tra i poveri non meno che tra i ricchi, tra i credenti non meno che tra i non-credenti. Ma dove sta l’origine di queste contese..? L’evangelo oggi ci spiega che l’origine delle contese non sta nell’eredità, che di per sé non è un male, ma sta invece nell’attaccamento dei nostri cuori alle ricchezze di questo mondo.
Rivediamo il racconto dall’inizio. Un uomo si rivolse a Gesù e gli disse: «Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità» (Lc 12,13). Da questa richiesta possiamo desumere che l’uomo riteneva di non aver ricevuto dal fratello quello che gli spettava. Molto probabilmente il fratello maggiore aveva conservato per se stesso tutta l’eredità del padre. Secondo la legge mosaica, al primogenito maschio spettava la maggior parte dell’eredità e una parte veniva divisa tra gli altri fratelli. Pare che in questo caso il fratello maggiore si fosse tenuto tutto per sé, rifiutando di dare al minore la parte che gli spettava. In casi del genere i giudei si rivolgevano ai dottori della legge, i quali, in base alla legge, stabilivano la parte che spettava a ciascuno dei figli e risolvevano i conflitti sorti a causa dell’eredità. Evidentemente l’uomo che si rivolse a Gesù, riconoscendo in lui un Maestro esperto della Torah, si aspettava che Gesù facesse valere i suoi diritti contro il fratello, applicando la legge di Mosè per la spartizione dell’eredità. Gesù, invece, non accoglie la richiesta ma gli risponde: «Uomo, chi mi ha costituito su di voi giudice o spartitore?» (Lc 12,14).
Come mai una risposta del genere..? Innanzitutto questa risposta ci dice che Gesù non è venuto su questa terra ad assolvere la funzione del dottore della legge, ma per Luca è venuto a inaugurare l’anno accettevole del Signore, il tempo della grazia del nostro Dio. Gesù è il messia investito dallo Spirito di Dio che viene a evangelizzare i poveri, ad annunciare la liberazione agli oppressi, a fasciare i cuori spezzati, ad aprire gli occhi a chi li ha chiusi, a svegliare chi si è addormentato, a ritrovare i perduti, ad accogliere gli esclusi, a curare gli ammalati e a salvare i peccatori. La sua missione non contempla la funzione di giudice che risolve contese legate all’eredità. In secondo luogo Gesù si rifiuta di prendere le parti di quell’uomo perché intuisce che il vero problema tra i due fratelli non sta nella spartizione dell’eredità, ma nei loro cuori pieni di avarizia. Gesù, infatti, subito dopo aver risposto a quell’uomo, disse ai suoi discepoli: «State attenti e guardatevi da ogni avarizia; perché non è dall'abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita» (Lc 12,15).
Quei fratelli non riuscivano a mettersi d’accordo sulla spartizione dell’eredità a causa della loro avarizia. Entrambi aspiravano a guadagnare il più possibile dall’eredità lasciata dal padre perché essi credevano che il loro benessere futuro  dipendesse dall’abbondanza dei beni che sarebbero riusciti ad accumulare. Ma Gesù dice: non è dall'abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita!
Chi è troppo attaccato ai propri beni non è più in grado di vivere liberamente la propria vita perché diventa schiavo dei propri possessi e finisce col vivere soltanto per essi. Come ha spiegato lo psicologo Erich Fromm nel celebre saggio Avere o essere?, la persona che orienta la propria esistenza verso l’avere finisce col definire la propria identità in base alle cose che possiede: è ciò che ha e, se gli venisse meno quello che possiede, non sarebbe più nulla.
Non è dall'abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita! Gesù avvisa i suoi discepoli affinché essi non commettano lo stesso errore di quei due fratelli, ma si guardino da ogni avarizia. E li mette in guardia servendosi di una parabola. Un uomo ricco aveva un campo di grano e fece un raccolto così abbondante che i suoi granai erano diventati troppo piccoli per contenere tutto quel grano. Allora iniziò a preoccuparsi perché non sapeva dove conservare tutto quel raccolto. Già questo particolare dovrebbe farci riflettere: tutto quel "ben di Dio", anziché rendere più felice quell’uomo, gli diede delle preoccupazioni in più.
Più aumentano le ricchezze e più aumentano i rischi di perderle in un investimento fatto male o di essere derubati. Più aumentano le ricchezze e più bisogna preoccuparsi a conservarle nel modo migliore per non perderle. Una vita che dovrebbe essere "agiata" diventa così "agitata", fatta di timori, di preoccupazioni e di notti insonni.
Il ricco uomo della parabola arrivò a chiedersi: "Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti?" E disse: "Questo farò: demolirò i miei granai, ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il mio grano e i miei beni” (Lc 12,17-18). Quest’uomo decide il da farsi pensando solo a se stesso. Egli è ossessionato dal custodire avidamente tutto quello che gli appartiene. Non fa altro che pensare a ciò che è suo: i miei granai, il mio raccolto, i miei beni… Nel suo pensiero ricorre continuamente la parola mio, mio mio, talmente è avido e avaro di beni. Quest’uomo non si rende conto che non esiste nulla di totalmente suo per due motivi fondamentali:
1° perché tutto ciò che abbiamo è un dono di Dio;
2° perché tutto ciò che abbiamo a nostra disposizione possiamo ottenerlo anche grazie al contributo degli altri.
Martin Luther King, commentando questa parabola, scriveva: «L'uomo ricco era stolto perché non si rendeva conto della sua dipendenza dagli altri. Egli aveva detto 'io' e 'mio' così spesso che aveva perduto la capacità di dire 'noi' e 'nostro'. Che ce ne rendiamo conto o no, siamo eternamente debitori di uomini e donne conosciuti e sconosciuti».
Uno dei problemi principali del ricco stolto era che non si sentiva debitore di nessuno per la buona riuscita del suo raccolto: né verso altri uomini, né tantomeno verso Dio. Egli pensava soltanto a proteggere e a conservare tutto quello che era suo fino all’ultimo chicco di grano. Ma chi fa i suoi progetti senza tener conto di Dio si comporta da stolto. Quell’uomo si era affaticato a conservare molto più grano di quanto gli occorresse, illudendosi in questo modo di garantirsi un futuro sereno e spensierato senza rendersi conto che il futuro non ci appartiene. Dopo aver accumulato tutti i suoi beni per il suo futuro, egli disse a se stesso: «Anima, tu hai molti beni ammassati per molti anni; ripòsati, mangia, bevi, divèrtiti» (Lc 12,19).
Riponendo tutta la propria sicurezza nei beni che aveva accumulato, egli credeva di assicurarsi un futuro sereno. Ma Dio gli disse: "Stolto, questa notte stessa l'anima tua ti sarà ridomandata; e quello che hai preparato, di chi sarà?" (Lc 12,20). Il futuro non è nelle nostre mani, ma è nelle mani di Dio, e chi non se ne rende conto vive la propria vita come quell’uomo, pensando soltanto ad accumulare beni che poi un giorno o l’altro dovrà lasciare. Ma che senso ha tutta la fatica, le preoccupazioni e le agitazioni che uno ha dovuto sopportare per accumulare i suoi beni, quando poi dovrà lasciare tutto il giorno che meno se lo aspetta..? Tutto questo non ha senso, ma è da stolti.
Come scriveva il saggio autore del libro dell' Ecclesiaste: "ecco un uomo che ha lavorato con saggezza, con intelligenza e con successo, e lascia il frutto del suo lavoro in eredità a un altro, che non vi ha speso nessuna fatica! Anche questo è vanità, è un male grande. Allora, che profitto trae l'uomo da tutto il suo lavoro, dalle preoccupazioni del suo cuore, da tutto ciò che gli è costato tanta fatica sotto il sole?" (Ec 2,21-22).
Tutto è vanità e un correre dietro al vento: così fu la vita dell’uomo stolto della parabola e così fu anche la vita dei due fratelli che litigavano tra di loro per l’eredità. Ma Gesù mette in guardia i suoi discepoli a non ricadere nello stesso devastante errore, dicendo loro: "Così è di chi accumula tesori per sé e non è ricco davanti a Dio" (Lc 12,21).
E noi oggi in funzione di quali ricchezze stiamo vivendo: di quelle materiali, destinate a passare, o di quelli spirituali per essere ricchi davanti a Dio? In che modo stiamo impostando la nostra esistenza: sull’avere o sull’ essere, sull’egoismo o sulla condivisione, su noi stessi o su Dio..? Gesù c’insegna che chi vive solo per se stesso, per quanti tesori possa accumulare, rimarrà sempre un poveraccio davanti a Dio, ma, chi vive anche per il proprio prossimo, è ricco davanti a Dio.
Il vero ricco è chi vive non per l’avere ma per l’essere, non per le cose ma per le persone, non per possedere ma per donare, non per i soldi ma per il Signore.
Non è dall'abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita! A chi stai affidando la nostra esistenza: ai beni che desideriamo possedere o al nostro Signore?
Gesù non disprezza i beni della terra o le ricchezze materiali in quanto tali, ma ci mette in guardia a non lasciarci dominare dalle ricchezze di questo mondo, illudendoci che esse possano darci la felicità e finendo col vivere nella frustrazione per i beni che non abbiamo o nell'ansia di perdere quelli che abbiamo.
Il Signore oggi ci chiama a rimettere le nostre vite nelle Sue mani, affinché possiamo riporre in Lui la nostra speranza in tempo di abbondanza e in tempo di ristrettezza, nella fiducia che Egli si prenderà cura di noi in ogni tempo. Affidandoci giorno per giorno al nostro Signore, riscopriremo che la nostra vera ricchezza è nel nostro legame d'amore con Lui, che ci libera da ansie, paure e preoccupazioni per il futuro e viene a riempire i granai dei nostri cuori con le sue benedizioni, donandoci pace nei nostri turbamenti; gioia nelle nostre afflizioni e la forza di andare avanti nelle difficoltà della vita. Questa pace, questa gioia e questa forza che discendono dal Signore rappresentano la ricchezza d'animo che Dio ci dona e che siamo chiamati a condividere nelle nostre famiglie, nella chiesa e nel mondo per essere così portatori della sua luce.
 
Ruggiero Lattanzio   (21 Gennaio 2024)
 

 
 
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